Un dialogo a distanza con Helena Janeczek

Seguo il lavoro di Helena Janeczek da Lezioni di tenebra e dalle Rondini di Montecassino. Ammiro la sua capacità di interrogare il passato, la storia degli altri e la propria, l’autobiografia familiare e le vicissitudini di donne e uomini “che non siamo noi”, con una forza calma e salda.

Non sono solo bravura e talento. C’è anche un dominio psicologico, direi spirituale, del tempo. Helena sa affrontare la storia senza spaventarsi. Le tiene testa. È coraggiosa. Credo sia una sua dote naturale. Ma non escludo che le sia costato anche un esercizio, un’ostinazione, un farsi forza per essere forte.

Il risultato, ad ogni modo, è straordinario. Mentre leggevo il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica, restavo colpito dalla lentezza sensuale della sua scrittura, dalla capacità di fermarsi al fianco di Gerda, Robert, Ruth, Willy e Georg, di osservarli, ascoltarli, mostrarli prendendo tutto il tempo che serve, senza fretta, senza accelerare, oscillando come un pendolo tra le epoche e le decadi, disconnettendo e riconnettendo il presente e il passato della narrazione, senza paura del tempo. Così nascevano pagine che al contrario e di conseguenza, in me che leggevo, accrescevano il desiderio di andare avanti, di leggere ancora, senza fermarmi, senza paura del tempo.

Ero ammirato e mi dicevo che dev’essere bello sapere e poter raccontare in uno stato di adagio permanente, così com’è riuscito a lei.

Conoscevo gli anni di ricerca e di studio dedicati da Helena Janeczek a questa storia, l’immersione negli archivi del passato, l’inseguimento di valige messicane, la caccia a una ragazza mitica e sfuggente, morta troppo giovane nella prima guerra tra il fascismo e il nazismo da una parte, e l’antifascismo dall’altra.

Insomma attendevo questo libro da molto, ed ero (sono) anche grato a Helena di aver aperto un dialogo comune su storia e racconto, un confronto reciproco sul modo in cui un narratore può rivolgersi al passato, farlo parlare, sulle questioni etiche ed estetiche che deve porsi prima di affrontare vite non d’invenzione, accadimenti non d’immaginazione, pur non rinunciando a immaginare, inventare, fantasticare.

Sono anche contento, e molto, che Helena abbia apprezzato Mio padre la rivoluzione consigliandolo in un suo intervento sul Piccolo.

Sono contento perché (forse ovviamente, forse banalmente), nel mio lavoro cerco la stima delle persone che stimo, e se questa non viene, vuol dire che ho lavorato male, che potevo fare meglio; ma se accade il contrario…

Credo che il dialogo proseguirà. Si è arricchito, negli ultimi anni, di confronti pubblici su storia e narrazione che avranno, forse, un seguito.

Ma, nel corso di una presentazione romana del suo romanzo, ho sentito dire a Helena qualcosa come “ora basta” (vado a memoria). Nel senso di: basta scrivere di ieri,  basta frugare nella storia, basta rompersi le ossa e il cervello in narrazioni archeologiche.

Forse è il momento di tornare al presente, mi pareva di capire dalla battuta di Helena. Se era questo che intendeva, non posso darle torto. Anche se per me è molto, molto, molto difficile lasciare il passato. Almeno per un poco ancora.