Lubiana

Il 22 ottobre scorso sono stato ospite delle attività organizzate in Slovenia per la XVIII Settimana della Lingua Italiana nel Mondo. È stata l’occasione per tenere un intervento intitolato Storie infedeli. Tradire il passato per raccontarlo. L’incontro è stato co-organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura e dal Dipartimento di Lingue Romanze (sezione di Italianistica) della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lubiana.

Per circa un’ora ho parlato di un tema che mi sta a cuore, e mi pare pure sintomatico. Il rapporto, sempre più urgente, tra scrittori e storia. E il rapporto tra scrittori e storici. Le nostre infedeltà consapevoli e inconsapevoli, la nostra acribia comunque imperfetta – perché uno scrittore non sarà mai uno storico -, insomma i nostri metodi autodidatti quali rischi comportano? In altre parole, siamo all’altezza della storia con la quale ci misuriamo? Stiamo dando un contributo utile, al di là del nostro manifestarci, per dirla con le parole di Daniele Giglioli, in quanto sintomi?

Qui, su Radio Capodistria, un’intervista al riguardo.

Carlo Levi e il cielo di Roma

«Il cielo di Roma non è così alto come quello delle città del Nord, come quello grigio-azzurro di Parigi, che pare stendersi per infinite migliaia di leghe visibili in prospettiva sulle nostre teste, o come quello stranamente colorato di Londra, o quelli esotici e tempestosi d’America; ma è ricco, denso, popoloso, gremito di nubi barocche, pieno di curve mutevoli, appoggiato sulle case, sulle chiese e sui palazzi come una cupola fantastica che il vento fa girare e avvolgere, spaziando qua e là, seguendo bizzarro, come un cane che segue una pista, una sua aerea geometria, un suo mobile ritmo.

[…]

Tutta la città si apriva davanti a me, in una successione infinita di tetti, di terrazze, di finestre, di cupole, in una distesa chiara di grigi aerei, di gialli leggeri, di rosa dorati, di intonaci trasparenti di vecchiaia, appena un po’ viola nelle ombre. Ogni cosa era nitida e lontana, immersa in un’area visibile e colorata, dove pareva circolassero miriadi di impalpabili corpuscoli d’oro».

Carlo Levi, L’Orologio (1950), Einaudi 1989, pp. 24, 133.

Due cose in cui ho creduto e continuo a credere, vorrei segnare qui

«Almeno due cose in cui ho creduto lungo il mio cammino e continuo a credere, vorrei segnare qui. Una è la passione per una cultura globale, il rifiuto della incomunicabilità specialistica per tener viva un’immagine di cultura come un tratto unitario, di cui fa parte ogni aspetto del conoscere e del fare, e in cui i vari discorsi d’ogni specifica ricerca e produzione fanno parte di quel discorso generale che è la storia degli uomini, quale dobbiamo riuscire a padroneggiare e sviluppare in senso finalmente umano.

(E la letteratura dovrebbe appunto stare in mezzo ai linguaggi diversi e tener viva la comunicazione tra di essi.)

Un’altra mia passione è quella per una lotta politica e una cultura (e letteratura) come formazione di una nuova classe dirigente. (O classe tout court, se classe è solo quella che ha coscienza di classe, come in Marx.) Ho sempre lavorato e lavoro con questo in mente: vedere prender forma la classe dirigente nuova, e contribuire a dare ad essa un segno, un’impronta».

Italo Calvino, in AA.VV., La generazione degli anni difficili, Laterza 1962, pp. 86-87.

Immagine di copertina: da Wikipedia, Oslo 7 aprile 1961, «Dagbladets», fotografo: Johan Brun.

Una pagina di Luca Canali

«Me il Partito mi aveva salvato, a vent’anni ero finito, tutto, corpo e anima, camminavo con il bastone, assetato, bucato dalle iniezioni, dopo aver fatto per semplice amore e amicizia anche il mezzano ai liberatori, procurato loro alcol e seniorine, fatto con loro il bagno nel fiume ascoltandoli con gioia chiamarmi Luk mentre nuotavo subito dopo il pranzo fra i muraglioni infuocati senza più le forze di un tempo, un affanno, una delusione di tutto poi. CanaliCosa aveva portato la liberazione per me oltre al boogie-woogie e il gioco delle tre carte nelle strade? Il fascismo era crollato, in cui avevo creduto poi non più, il timore delle retate, dei campi di concentramento, della renitenza di leva passato anche quello, mi sembrava impossibile poter entrare liberamente in un cinema, in un casino con le porte forate dai colpi di baionetta da cui spiare coiti e finti lamenti, andare dovunque mi piacesse, nulla era vietato, ma non poteva essere questa la libertà, disporre di giornate vuote, la sera fare la fila dietro un albero in attesa della dattilografa che si alzava le vesti per arrotondare il salario, sentirsi pesare addosso come piombo gli abiti intrisi di pioggia,

l’inverno senza ombrello senza fede senza odio senza amore, sempre assenti e sempre dolorosamente presenti il padre e la madre

l’inverno senza ombrello senza fede senza odio senza amore, sempre assenti e sempre dolorosamente presenti il padre e la madre, come nelle notti di plenilunio dieci anni prima in comitiva rasente il bosco sentivo un terrore vacuo, per poi sognare una molle massa tonda che mi schiacciava come un insetto, la sensazione si trasferiva alla base della lingua, un cercine di gomma, o sfuggito alla Wehrmacht dopo l’armistizio nella casa ipotecata degli avi in montagna risalivo ansimante il pendio con mio padre, le stoppie mi ferivano i polpacci, i cani mi ululavano dentro, la zia ci accolse insonnolita, contrariata anche, indicandoci il pagliericcio di foglie di granturco su cui mio padre dormì russando come sempre, io invece a rivoltarmi fino all’alba sentendo le foglie secche frusciarmi sotto, e l’angoscia di non avere più nulla, oltre la vita, una vita che doveva avere un senso oltre la fame, la sete, la stanchezza, la tristezza, la gratifica di fantasie lubriche, se dovunque si fuggiva e si moriva senza sapere perché, se odiavo il mondo perché lo amavo troppo, se non offrivo nulla per paura di essere respinto, se respingevo tutto per il rancore di un antico presunto rifiuto, se mi sembrava di smarrirmi perché ognuno prendeva la sua strada e mi lasciava solo, senza che sospettassi di poter prendere anch’io la mia o di andare con gli altri. Perciò forse tra i momenti più belli della mia vita erano stati il match con i guantoni da gioco con un tracagnotto che pestai senza odio godendo della precisione dei miei diretti attraverso la sua guardia, e il rito collettivo della sigaretta fumata intorno al fontanile fra noi fuggiaschi passandoci la cicca dopo ogni tirata,

l’urto vittorioso o l’inserimento nel circuito umano

l’urto vittorioso o l’inserimento nel circuito umano, potrei aggiungere gli agguati con fionde di elastici da cartoleria, decenne appena detronizzato dalla nascita della sorella, dietro l’angolo della chiesa a scoccare uncini di filo elettrico sulle natiche delle ragazze, quando mia madre mi vide passando di lì per caso, e non riusciva a credere ai suoi occhi, il piacere che mi procurò esserle apparso a quel modo, un’espressione nuova, non più il bambino triste tutto della sua mamma, di stradaiolo invece con la sua banda e appetibili bersagli. Ma era pochino per sopravvivere a quello che mi sembrava il crollo di tutto, al vuoto rimasto dopo la nausea delle prime Chesterfield e l’insopportabile cefalea pulsante per l’alimentazione irregolare e la fornicazione spinta, così senza credere più in me cercai fuori di me, e trovai due cose, Clodilia e il Partito, che tenni disperatamente strette, ma che avrei ugualmente perduto in seguito, pagando così la necessità di appoggiarmi ad altri per essere forte, di chiedere per poter dare, la mia ignoranza di umiltà, di corroboranti sconfitte, di abbandoni che fossero scoperte di ciò che veramente, intimamente ero».

Luca Canali, Ci chiamavano teppisti rossi, Marsilio 1996, pp. 48-50.