Storia aperta è stato selezionato nella cinquina del Premio Bergamo. Queste le motivazioni del comitato scientifico, composto da Andrea Cortellessa, Silvia De Laude, Angelo Guglielmi e Michele Mari:
Davide Orecchio fa i conti con la storia collettiva e con quella personale in Storia aperta (Bompiani 2021), un romanzo che chiude una parabola aperta dieci anni prima con il libro d’esordio, Città distrutte (2011), e proseguita con la raccolta Mio padre la rivoluzione (2017), già finalista al Premio Bergamo 2018. A segnare la continuità di questo percorso è la tecnica narrativa, che attinge ad archivi reali e fittizi per comporre un racconto che si muove in un terreno sospeso tra storia e fantasia; ma anche lo stile, estremamente figurato, ritmato, a tratti addirittura lirico; e soprattutto il soggetto, la vita di Pietro Migliorisi, alter ego del padre dell’autore, affacciatosi già nelle raccolte precedenti e ora raccontato con l’ampiezza di un grande romanzo storico e biografico. Seguendo le traiettorie impossibili di una biografia che talvolta si biforca, procedendo simultaneamente in direzioni contrapposte, questo romanzo racconta la storia di un’intera nazione, quella di un’Italia che è stata fascista e comunista, bellicista e pacifista, morale e immorale, pudica e sfacciata. Una storia che, per essere fedele fino in fondo, non può fare a meno di lasciare aperte le più aspre contraddizioni.
“Perché l’hai chiamato Koba? Perché la centrale nucleare?”.
Più tardi la professoressa mi spiega: “Sai, lui è bravissimo. Studia più di tutti gli altri. Ha 7 in latino! Viene dal Marocco”. Come si fa a non tifare per lui? Buon vento, ragazzo.
«Nel bel capitolo con protagonista Gianni Rodari il tono si fa più dolce, più leggero, quasi nostalgico, commuove il poeta che si salva grazie ad una favola. Come ti è venuta l’idea di dare a Rodari comunista in terra sovietica questo bel ruolo?»
«Il racconto Il poeta sul Volga è stato un dono degli archivi. Non avevo alcuna intenzione di scriverlo. Mi chiedevo come scrivere di Lenin e non avevo ancora deciso nulla. Frequentavo l’archivio della Fondazione Gramsci a Roma per un’altra ricerca, parallela ai lavori preparatori per Mio padre la rivoluzione, e mi imbattei in un fascicolo sulle celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin (1870-1970). C’era un opuscolo del Pcus che conteneva istruzioni per tutti i partiti comunisti mondiali e chiedeva tra l’altro che inviassero giornalisti, scrittori e via elencando in Unione Sovietica per raccontare la storia, o più precisamente il mito di Lenin. In quegli stessi giorni – poco prima o poco dopo, non ricordo – trovai su «Paese Sera» del 1969 un reportage in quattro puntate firmato da Gianni Rodari. Era un viaggio nei luoghi di Vladimir Il´ič Ul´janov, e nel tempo della sua infanzia: la casa paterna, quella del nonno, le stanze da letto, i giochi, gli indumenti. Folgorazione, direi. Il racconto era già nelle carte dell’archivio e dell’emeroteca. Non restava che scriverlo».
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Mentre quisono diventato il personaggio di un racconto/recensione, scritto da Danilo Zagaria:
«Capita, a volte, che un autore s’intrufoli in magazzini poco sorvegliati o in sotterranei farmaceutici, e da lì rubi agenti teratogeni, flaconi che se svuotati possono indurre la materia a mutare, a sviluppare in modo anomalo vaste regioni di corpi, di narrazioni, di storie. Capita anche che, tale autore, utilizzi la sostanza mutagena per raggiungere un preciso obiettivo: ingrossare e deformare per osservare meglio, alterare e ricombinare per poter comparare e confrontare, trasformare il materiale per riuscire a stregare, attraverso la sempiterna fascinazione che il mostruoso suscita in chi lo scruta, il lettore».
Resuscitando il ‘novecentodiciassette, Orecchio resuscita quella parte di noi perduta nel disinteresse, restituisce il diritto di parola a quel coro-mondo che annichilito dalla voce dei potenti, può e deve tornare a interrogarsi sul mondo.
La linea rossa che lega i finalisti di quest’anno sembra essere l’invenzione del passato come chiave per sopravvivere al presente, o quantomeno per comprenderlo.
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Non smettiamo di misurarci con la storia. Non è una novità, ma perché dura e cresce questa ostinazione? Le ragioni sono molte: in letteratura, quasi una per ogni autore, e altrettante per ogni lettore. Lo Straniero le illustrò qualche anno fa in un’inchiesta curata da Goffredo Fofi e dal compianto Alessandro Leogrande. Qui, un po’ rozzamente (ma spero di tornarci sopra in futuro), mi sento di escludere un intento polemico verso la storiografia. Ossia nessuno di noi può rivendicare il recupero o l’invenzione, alla Schwob, di esistenze individuali trascurate dalla storia che bada solo ai grandi eventi, alla politica. Perché, se siamo figli di Schwob e Borges, lo siamo anche di quella rivoluzione storiografica che ha portato nelle nostre letture, nella nostra coscienza storica, i benandanti e le streghe, gli eretici, gli sconfitti, la dimensione sociale e la microstoria. Siamo dunque anche figli di Ginzburg e Hobsbawm e Bloch.
Ma c’è una cosa che ci distingue, mi sembra, dal secolo scorso: noi abbiamo ridotto la verticalità temporale, misuriamo meno il distacco tra il presente e il passato, i tempi della storia coabitano quasi simultaneamente nelle nostre coscienze nutrite di immagini, parole, spettacolo, forme, cinema, televisione, multimedialità. E’ un tema che non riguarda solo la letteratura, ma proprio la vita. Siamo l’esito culturale di una presentificazione che impone il peso fortissimo della storia sulle nostre spalle. La storia ci è sempre presente, non ci lascia mai. Le distanze sono annullate. Non è più l’eterno ritorno, il tempo ciclico, l’eterogeneità dei tempi. Non è Löwith. E’ un tempo storico unico che è il presente e il passato, forse anche il futuro. Dalla lista di Schindler ai pellegrinaggi nello spazio e nel tempo di Sebald, dall’intrattenimento di Hollywood ai più ponderosi volumi, ci siamo evoluti (o involuti) in creature nelle quali esulcera l’immaginazione storica in ogni sua forma sentimentale o intellettuale: sofferenza, empatia, gioia, riscatto.
Poniamo le necessarie e orientative questioni esistenziali, politiche, autobiografiche al passato non più col rispetto agnatizio del Lei o del Voi che si deve al pater familias, ma col Tu di fratelli e sorelle, di compagni di strada.
L’ultima transizione digitale ci ha dato la spinta definitiva. In un tweet, o da un archivio multimediale, può apparirci qui e ora la foto di un cane in trincea, e che indossa la maschera antifosgene, a Verdun o chissà dove nella Grande Guerra. Le rughe sulla pellicola che un tempo ci avrebbero dato coscienza del tempo, oggi sono il filtro per Instagram. Anche qui la tecnica finisce col rendere tutto presente. Anzi non esistono quasi più i tempi. Esistono i modi. “In che modo vuoi vedere? Vuoi guardare in tinta seppia o anni ’70? Vuoi percepire col filtro noir o grunge?”. Il digitale presente continuo è spesso un attentato alla cognizione dei lassi, non tollera che noi si colga neppure la decomposizione della materia. Questa modi-ficazione è affascinante, è estetica, è emozionante, consente una vicinanza al passato che nessuno ha avuto prima di noi, ma può indurre a un’ignoranza delle cronologie, delle cause e degli effetti, perché ci crea un deposito spotify di secoli e storia senza sintassi, senza ragionamento.
Tutto ciò non sminuisce la questione, anzi è iperreale, è CGI, è realtà aumentata. Rispetto alle donne e agli uomini che ci hanno messo al mondo, e a chi mise loro al mondo, ci orientiamo nel divenire in modo simultaneo, nuovo, rivoluzionario: ma, quanto più sentiamo il passato vicino e presente, tanto più insistiamo nell’interrogarlo, drogati e stupefatti da questa sostanza che ci permea e vivifica: la storia. Tuttavia senza bussole né assi cartesiani, senza un’architettura e ossatura che dia forma e grammatica alle nostre domande, ogni nostro “perché” rischia di essere inutile in quanto mal posto, e di ricevere in replica solo “falsi amici”. E noi crederemo di avere capito, ma non avremo capito.