Cronache dalla polvere

E’ in libreria Cronache dalla polvere (Bompiani), un mosaic novel, romanzo a racconti intrecciati  opera di un collettivo di autori riuniti nel nome di Zoya Barontini. Ho partecipato molto volentieri al progetto, che si rivolge a un pubblico giovane e racconta la fin troppo rimossa “avventura” italiana in Etiopia, in questo caso non tanto l’invasione e la guerra per l’impero fascista (1935-1936), quanto la repressione dei mesi successivi.

Dall’aletta

«Nel 1936 l’esercito italiano conquista la capitale dell’impero etiope, Addis Abeba. Per quelle popolazioni un nuovo inizio: la pace romana, come la definì Benito Mussolini. Cronache dalla polvere racconta questa pagina di storia dell’Italia dimenticata e troppo a lungo taciuta: l’occupazione dei territori dell’Abissinia da parte delle truppe fasciste. Il regime ambiva a farne il fiore all’occhiello dell’Impero italiano ma si trovò a reprimere con atroce violenza la resistenza dei fieri guerriglieri arbegnuoc. Le truppe italiane insieme alle camicie nere si resero protagoniste di rastrellamenti, distruzioni e massacri di uomini, donne e bambini, abbandonando umanità e pietà. Perdute per sempre in quelle terre lontane da Roma. Le popolazioni locali non hanno mai dimenticato quel passato di inaudita violenza.
Cronache dalla polvere è un’occasione per ricordare l’orrore della guerra e delle ideologie di superiorità della razza. Questa storia batte al tempo inesorabile dei tamburi di guerra, respira polvere e vento e ha gli occhi dei suoi protagonisti: soldati italiani, guerriglieri etiopi e alcune misteriose presenze. Fantasmi. Il paesaggio africano del secolo scorso rivive con una vena fantastica grazie al racconto corale del collettivo di scrittrici, scrittori e illustratori in tutta la sua spettacolare intensità e drammaticità».

Zoya Barontini è il nome scelto dal collettivo di autori per il progetto di mosaic novel curato da Jadel Andreetto e illustrato da Alberto Merlin. Gli autori che hanno partecipato: Massimo Gardella, Lorenza Ghinelli , Sirio Lubreto, Gaia Manzini, Michela Monferrini, Davide Morosinotto, Davide Orecchio, Guglielmo Pispisa , Igiaba Scego, Aldo Soliani, Nicoletta Vallorani.

Il Booktrailer

Buona lettura, spero!

Piccola visita ai luoghi di Roma occupata (1943-1944)

Ho fatto una piccola visita (incompleta e parziale) ai luoghi di Roma nell’occupazione nazista e nella Resistenza. Non tutti i luoghi. Quelli che ho potuto raggiungere e fotografare (altre foto le ho ricevute da amici). Il mio Virgilio è stata questa guida: Anthony Majanlahti e Amedeo Osti Guerrazzi, Roma occupata 1943-1944, il Saggiatore 2010; insieme ad altri testi che citerò di volta in volta. La visita è divisa in 25 tappe. Una più dolorosa dell’altra. Una più necessaria dell’altra.

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Non potevamo

Non potevamo

«Le leggi erano assai severe. Se eravamo ancora in età scolastica non avremmo potuto frequentare le scuole. E se fossimo stati insegnanti di ogni ordine e grado, non avremmo potuto più insegnare. Non avremmo potuto fare i giornalisti. Se fossimo stati scrittori o commediografi o musicisti i nostri libri non sarebbero stati stampati, né le commedie rappresentate, né le nostre composizioni eseguite. Anche se avessimo trovato l’anima gemella in una giovane non ebrea, non l‘avremmo potuta sposare. […] Non potevamo possedere un apparecchio radio. Se avessimo avuto il telefono il nostro nome non sarebbe stato incluso nell’elenco degli abbonati, se un nostro caro fosse deceduto non potevamo mettere un necrologio sui giornali per farne partecipi conoscenti e amici…

Non potevamo frequentare (ammesso che ne avessimo i mezzi e la voglia) luoghi di villeggiatura marini o montani. Le proprietà immobiliari sarebbero state amministrate non più dai legittimi titolari ma da una Società governativa (la “Egeli”).

non avremmo potuto nemmeno possedere un allevamento di piccioni viaggiatori

Sulla nostra carta di identità sarebbe stato apposto un timbro con la scritta ben visibile “di razza ebraica”. E poiché le dittature finiscono spesso per cadere nel ridicolo non avremmo potuto nemmeno possedere un allevamento di piccioni viaggiatori. Poveri piccioni amici di sventura “giudaizzati” per legge. (Un amico spiritoso mi disse che potevo però tentare allevando piccioni sedentari possibilmente pigri e svogliati)».

Fausto Coen, Una vita tante vite, 2004, pp. 64-65.

L’unica cosa buona del fascismo è che genera antifascismo

Nulla sembra cambiato, la vita resiste. La biblioteca di storia resiste, è come vent’anni fa, salvo la novità di tessere magnetiche e richieste via intranet. Ci sono tornato a causa del mio piccolo viaggio e ho preso in mano un’autobiografia in forma di diario firmata da Fidia Gambetti (Gli anni che scottano, 1967, nuova ediz. Mursia 1995). Il libro sta nel Fondo Ajello.

Annoto anche in pubblico due o tre passaggi.
Temi: a lezione di antifascismo dal fascismo, la storia si ripete.

Ruggero Zangrandi nel 1967, tre anni prima di suicidarsi, nella prefazione alle memorie di Gambetti (p. VIII) descrive l’esperienza del fascismo come privazione dell’autonomia critica e intellettuale. Un’esperienza storicizzata. Ma un’esperienza riproducibile, non esclusa dal paesaggio del futuro storico. Sarà bene tenerlo a mente. Il passato trasmette malattie delle quali solo il passato conosce la cura.

Il sacrificio della critica e della ragione

«Ci sono sempre stati tanti fascismi e tante forme di antifascismo. Ce ne saranno ancora. Basta guardarsi in giro con occhio appena esperto, guardare a molti Paesi del mondo contemporaneo, a molti partiti dell’Italia d’oggi, per riconoscerne i connotati. Fascismo è tutto ciò che, nel nome di vantati esaltati mistificati ideali e nella conseguente necessità di non infiacchirli con le troppe discussioni, esige specie nella gioventù il sacrificio della critica e della ragione, la rinuncia all’autonomia del pensiero e del giudizio. Si chiama o si può chiamare “disciplina rivoluzionaria” o anche solo disciplina di partito; ed è solo un metodo, non necessariamente violento, per costringere al conformismo. A tal fine, l’esperienza della nostra generazione, non foss’altro perché la più recente e moderna, è esemplare. E può insegnare ancora. Non chiediamo pietà e neppure comprensione per i nostri errori. Li esibiamo, come sopra un tavolo anatomico…».

 

Gambetti

Dalle memorie di Gambetti

1930

«Con una lettera all’Italia letteraria, provoco molto scalpore sulla scandalosa attività delle cosiddette case editrici che pullulano in Campania, Calabria e Puglia, spillando quattrini dalle tasche dei giovani ingenui e illusi, i quali sognano di pubblicare i loro parti e aborti letterari e, pur di riuscirci in qualche maniera, sono disposti a qualsiasi sacrificio, anche a togliersi il pane di bocca».

1930
«È l’ora di trovare un lavoro; o, meglio, di cercarlo, perché somiglia un po’ alla storia del classico ago nel pagliaio. Non ho alternativa: niente lavoro, niente Università. […] Entrare nella redazione di un giornale, pare sia possibile soltanto con una pesante raccomandazione romana; quella, ad esempio, per me già irraggiungibile, del segretario federale o del prefetto, conterebbe meno di niente. La categoria dei giornalisti fa quadrato per difendersi dall’assalto dei giovani. Da anni non si assume nessuno, fatta eccezione per il rimpiazzo di coloro che muoiono o vanno in pensione […]. Ciò, del resto, si capisce guardando i giornali che fanno: a parte l’allineamento politico, il loro stile grafico e contenutistico è tuttora quello dell’immediato dopoguerra. A rendere ancora più ermetica e impenetrabile la chiusura della professione, contribuisce il sistema della successione dinastica; onde, quando un giornalista se ne va (all’altro mondo o in pensione che sia), otto volte su dieci il giovane che viene assunto al posto suo è il figlio, o un nipote, o qualche altro più o meno prossimo parente».

clair

1932
«Un film di René Clair, À nous la liberté (in italiano: A me la libertà), ha provocato troppi intenzionali applausi in un cinema romano. Allarmato, il federale dell’Urbe ricorre al Duce in persona, il quale si rende conto che, a questo punto, ordinare il ritiro del film sarebbe peggio. Per fare qualche cosa, dispone la sospensione dal servizio del funzionario governativo che presiede la commissione d’appello per la revisione cinematografica».