Addio Gorby

Perdonatemi. Io su Gorbačëv non riesco a scrivere nulla di più rispetto a quanto ho scritto nel mio romanzo. Fu l’ultima illusione di un mondo che si avviava a morire. Era l’uomo dell’eutanasia. Io – giovane giovane – politicamente gli volevo bene. Ma ero irrilevante. E queste pagine non riguardano me.

La foto di Gorbačëv, in licenza CC, è tratta da Wikipedia e Flickr.

Lasciatemi solo leggere e parlare

«(Ride.) Quando ero in decima ho avuto una storia d’amore. Lui viveva a Mosca. Ci sono andata, per fermarmi non più di tre giorni. La mattina, alla stazione abbiamo estorto a certi suoi amici un’edizione artigianale delle Memorie di Nadežda Mandelštam, un’opera che a quel tempo tutti leggevamo avidamente. E bisognava restituirla già il giorno dopo alle quattro del mattino. Abbiamo passato ventiquattro ore immersi nella lettura, senza interruzioni, tranne un salto in negozio per comprare del pane e del latte. Ci siamo perfino dimenticati di abbracciarci, tanto eravamo stregati dalla lettura di quei foglietti che ci passavamo man mano. Come in preda alla febbre, al delirio … per quel libro che potevi tenere in mano … che potevi leggere. L’indomani, scadute le ventiquattro ore abbiamo anche dovuto attraversare tutta la città a passo sostenuto, i mezzi di trasporto erano ancora fermi. Ricordo bene quella traversata nella Mosca notturna col libro nella mia tracolla. Lo stavamo trasportando come un’arma segreta … Credevamo davvero che le parole potessero scuotere il mondo.

Gli anni gorbacioviani … Libertà e tessere di razionamento. (…) Te ne stai in piedi a far la coda anche cinque o sei ore, ma almeno sei in compagnia di un libro che prima non potevi acquistare. (…) A me in realtà, scema com’ero, sarebbe bastato anche questo, la libertà di parola perché, come non ho tardato a rendermene conto, ero una piccola sovietica, impregnata in profondità di sovietismo. (…)

Mi sarei accontentata che mi lasciassero leggere senza problemi. (…) Non mi occorreva altro. Non sognavo neppure di andare a Parigi. Di passeggiare per Montmartre. (…) Lasciatemi solo leggere e parlare. Leggere!».

(da Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del Comunismo (2013) trad. dal russo di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti, Bompiani, Milano 2018, pp. 223-225)

Cosmonauti

Domenica 21 luglio 2019, ospite di Pantagruel Radio3 (condotto da Graziano Graziani), per ricordare lo sbarco dell’Apollo 11 sulla Luna nel 1969 ho parlato un po’ di… cosmonauti e programmi spaziali sovietici.

Non che io abbia una particolare predilezione per i cosmonauti rispetto agli astronauti. Ma non si può parlare degli uni senza raccontare anche gli altri.

Qui il link alla puntata con relativo podcast.

Si è discusso di cosmismo russo e sovietico, Sputnik, addestramento dei cosmonauti, Jurji Gagarin e il suo Vostok 1…

«La Terra si vede benissimo. La sua superficie, le catene montuose, i fiumi più larghi e le foreste, le coste e le isole si possono distinguere nitidamente. Anche le nuvole che avvolgono la superficie terrestre potevo vederle perfettamente, e così le ombre che gettavano sulla terra. Il cielo invece era nero. Le stelle nel cielo apparivano più brillanti in questa oscurità. La Terra mostrava un alone di luce blu molto bello e caratteristico. L’alone si fa più nitido nell’orizzonte, dove avviene una transizione cromatica graduale: un blu soffice si fonde in un blu prima leggero, poi sempre più scuro, fino a risultare in un cielo violetto e poi nero. Sulla superficie terrestre, esattamente sulla linea dell’orizzonte, si scorge un colore arancione acceso, che poi esplode in tutti i colori dell’arcobaleno».

Questa è la prima descrizione del nostro pianeta visto dallo spazio. Parole pronunciate da Gagarin nella conferenza stampa successiva alla missione Vostok 1 del 12 aprile 1961. Mi sembrano perfette, ancora suggestive anche per chi, come noi, è ormai abituato a figurarsi lo spazio per immagini e non con lessico o concetti astratti.

Particolare da Jurji Korolev, Fratelli cosmici (1981)

La puntata è stata anche l’occasione per parlare di un pioniere misconosciuto della scienza aerospaziale, Ary Sternfeld, il primo ad adottare il termine “cosmonautica” contrapponendolo ad “astronautica”, così come raccontato da Mike Gruntman in From Astronautics to Cosmonautics (2007).

«L’autore ritiene che la parola “cosmonautica” sia più corretta di “astronautica” perché la definizione di una scienza che studia il moto nello spazio interplanetario dovrebbe fornire la nozione del mezzo dove si presume che il moto avvenga (cosmos) e non uno dei suoi obiettivi» (A. Sternfeld, Introduzione alla cosmonautica).

L’immagine dello spazio convoca inevitabilmente il rapporto di uno Stato, di una comunità con la propria storia. E’ un piano controverso, scivoloso, soggetto a un pesante intervento da parte delle autorità e delle istituzioni che elaborano l’uso pubblico della storia. La Russia di Putin, su questo piano, è davvero un caso da manuale. Si vuole comunicare come erede del meglio dell’impero degli zar e del meglio dell’Unione Sovietica. Solo del meglio. E tra queste virtù ovviamente rientrano le imprese dei cosmonauti.

L’impostazione si percepisce nel Museo di storia contemporanea di Mosca, luogo pieno di cimeli delle avventure spaziali ma anche molto concentrato nella celebrazione del presente e del futuro della Russia costruita e guidata da Putin. Il messaggio, come dicevo, è estremamente chiaro: noi siamo gli eredi del meglio del passato. Dagli zar abbiamo preso la costruzione dello Stato. Dall’Urss abbiamo preso la prosecuzione e industrializzazione dell’impero, i progressi tecnologici e l’esplorazione dello spazio.

Di questioni come assetto costituzionale, gulag, terrore, repressione dei diritti civili e politici non vale la pena di parlare. O meglio, lo si fa ma spiegando che appartengono al passato in forma di parentesi, di interruzione di una linea di perfettibilità che conduce al presente: questo il sottotesto comunicato. Ma se la Russia di Putin sostiene di avere preso solo il meglio, non il peggio, dalla storia che la precede, ovviamente noi sappiamo che non è così.

L’uso pubblico della storia si coglie chiaramente se ci concentriamo sul discorso sullo spazio, sulla cosmonautica. E per capirlo bisogna spostarsi in un altro luogo significativo di Mosca, il Vdnkh, che sta per Parco di esposizione delle conquiste dell’economia nazionale. E’ un fossile dell’epoca staliniana. Ma è stato riportato in vita. E’ un luogo davvero stupefacente. Costruito nel 1934, doveva celebrare la collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industria. Ma negli anni successivi si ammodernò con le conquiste tecnologiche e industriali dell’economia sovietica. Dopo il crollo dell’Urss (1991) cadde in fatiscenza. Negli ultimi anni è stato recuperato e aperto al pubblico.

Il suo monumento (non uso a caso questo termine) più interessante è probabilmente il padiglione Cosmos, riaperto nella primavera del 2018. Come scrive Juliette Faure (Le cosmisme, une vieille idée russe pour le XXIe siècle, Le Monde diplomatique, dicembre 2018):

«Il padiglione Cosmos ha riaperto le sue porte a testimonianza della ripresa di un vasto programma spaziale che, tra il 2016 e il 2025, comprende la costruzione di complessi spaziali, la creazione di una nuova generazione di navi da trasporto umano e il lancio di cinque navette spaziali automatiche per il lancio della prima fase del programma di alloggi lunari».

Insomma visitando il padiglione si comprende come il sogno della cosmonautica sovietica e poi russa sia tutt’altro che finito, al contrario.

Il Cosmos all’ingresso propone subito la navicella Vostok di Gagarin. E molti altri cimeli aerospaziali, tra cui una stazione orbitante Mir visitabile. E’ un luogo straordinario e controverso, come tutti i monumenti tramite i quali lo Stato, il potere politico, mitizza la storia per legittimarsi.

L’importante, quando si visitano questi posti, è mantenere un briciolo di spirito critico.

La morte di Stalin e un Borghese non adesivo

La copertina del Borghese di Leo Longanesi
La copertina del Borghese di Leo Longanesi

«L’agonia fu terribile e si svolse sotto gli occhi di tutti. All’ultimo momento mio padre aprì gli occhi e girò lo sguardo su tutti i presenti. Fu uno sguardo spaventoso, quasi folle, pieno del terrore che gli ispiravano la morte e i volti sconosciuti dei medici che gli si affollavano intorno. E in quello stesso momento egli sollevò la mano sinistra (che poteva ancora muovere) per indicare qualcosa in alto o forse per minacciarci tutti. Fu un gesto incomprensibile e terribile che non so capire, ma che non posso dimenticare. Conteneva una minaccia, ma non sappiamo a chi fosse rivolta… L’attimo dopo la sua anima si staccava dal corpo».

Svetlana Alliluieva citata da Dmitrij Antonovič Volkogonov, Trionfo e tragedia: il primo ritratto russo di Stalin, Mondadori, Milano 1991, pp. 612-613:

Erano le 9 e 50 del 5 marzo 1953.

«La bara con la salma di Stalin fu portata nella cripta del mausoleo, nella piazza Rossa, e collocata accanto a quella di Lenin. La notte, il nome del dittatore fu dipinto accanto a quello di Lenin, sul muro esterno del mausoleo. Ma in seguito il suo corpo sarebbe stato espulso dal sacrario e il suo nome cancellato. I posteri, ossessionati dalla personalità di Stalin e perplessi di fronte all’eredità del suo sistema, ma ancora incapaci di padroneggiarlo e di superarlo, per il momento non cercavano altro che di cancellare dalla propria mente il ricordo del dittatore».

Isaac Deutscher, Stalin. Una biografia politica, Longanesi, Milano 1969 (nuova edizione), pp. 876-77.

Per approfondire.