La Resistenza a Roma. Vivere per raccontarla

Un mio incompleto percorso nella letteratura e memorialistica della Resistenza romana.

“Perché si racconta una storia? Forse per poterla capire. La scrittura narrativa parte spesso da quel bisogno lì. Comprendere cosa è successo mentre lo si racconta. Comprenderlo grazie al racconto. Ma ci sono storie e storie. Alcune sono talmente esemplari, feroci, stupefacenti e memorabili che non le si capirà mai fino in fondo, né le si vorrà dimenticare. Allora il racconto dovrà essere trasmesso di voce in voce, di scrittura in scrittura, di generazione in generazione.

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Una storia famosa che nessuno conosce

La rivista Sotto il Vulcano (09/10, febbraio 2024) diretta da Marino Sinibaldi ospita un mio racconto-reportage sui luoghi della Banda del Matese (1877-1878). Da alcuni anni – e per “colpa” di Orso Tosco, che per primo mi segnalò questa storia – sto raccogliendo materiali per un romanzo sulla Banda guidata da Cafiero e Malatesta. Ho pensato che fosse il momento di iniziare a scriverne qualcosa. È un episodio interessante perché consente di mettere a fuoco alcuni elementi della storia politica e sociale italiana. Ad esempio l’attrito tra sinistra di governo e sinistra socialista, la criminalizzazione ed emarginazione del dissenso, e di ampi strati della società, da parte del costituendo Stato italiano. Il ruolo della violenza nella vita politica post-risorgimentale.

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Una serata con Antoine Volodine

Appunti da una conversazione.

Il 24 maggio a Roma, Industrie Fluviali, abbiamo incontrato lo scrittore francese Antoine Volodine. Abbiamo conversato con lui a proposito del suo ultimo romanzo, Le ragazze Monroe (66thand2nd), e di molti altri libri (ad esempio: Gli animali che amiamo). Luciano Funetta, Anna D’Elia (traduttrice di Volodine) e io. Il terrazzo era gremito; ottimo e meritato, per un grande scrittore.

Mi è sorto il dubbio di una letteratura che va alla morte e, tra i vari temi della conversazione, l’ho sollevato.

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Su «Cassandra a Mogadiscio» di Igiaba Scego

Ho letto, sottolineato, annotato per una decina di giorni Cassandra a Mogadiscio, il nuovo libro di Igiaba Scego. Poi l’ho posato sul mio tavolo. Poi me ne sono andato in giro nelle mie giornate, nel lavoro, nelle perdite di tempo, ma dedicandogli sempre uno scompartimento dei miei pensieri; pensieri che adesso ho provato a organizzare negli appunti che ho pubblicato su Nazione Indiana.

Quando qualcuno evoca la parola “storia”, penso subito a biblioteche e archivi, a carte, documenti e libri, a parole scritte e tramandate: parole come pilastri, carte come mattoni sui quali edificare, appunto, una storia (e una lingua, e uno stile). Ma non sempre si può disporre di un archivio, di un lascito familiare, di un deposito genealogico, di lettere o diari preziosi.

Questo libro – è la mia impressione – risolve con ammirevole sapienza il problema delle fonti, ossia del metodo d’indagine (e l’autrice è lei stessa fonte) e il problema della forma, ossia di un’architettura narrativa che trasmetta la voce della memoria. Poi ci sono molti altri temi altrettanto importanti, ho provato ad accennarli nel pezzo.